Roma (NEV), 21 gennaio 2015 – Pubblichiamo la presa di posizione sulla libertà d’espressione del pastore Olav Fykse Tveit, segretario generale del Consiglio ecumenico delle chiese (CEC), che sarà diffusa sul sito oikoumene.org. La traduzione del testo è a cura di Luca M. Negro, direttore di Riforma.
Che cosa possiamo dire dopo gli attacchi di Parigi, mentre il dibattito su religione, principi di libertà di parola e prevenzione del terrorismo torna ad essere all’ordine del giorno? Naturalmente, dobbiamo condannare gli attacchi di Parigi, come hanno fatto tutti i settori della società in Europa e oltre. Ma gli attacchi dovrebbero anche suscitare degli interrogativi esistenziali da parte di tutti, inclusi i governi, i giornalisti, i leader religiosi e le persone ovunque coinvolte. Basandomi su alcune delle mie osservazioni a partire dal lavoro internazionale e interreligioso del Consiglio ecumenico delle chiese (CEC), vorrei sollevare le seguenti cinque questioni spinose.
1. Libertà di espressione: per cosa e per chi?
È vero, la libertà di parola è effettivamente un diritto umano universale. Ma è anche un diritto che è sempre stato visto in relazione ad altri diritti e di conseguenza sottoposto ad alcune restrizioni nel suo esercizio.
In ultima analisi, la libertà di parola e la libertà di stampa sono anche una questione di potere. Noi dovremmo godere di questo diritto per essere critici e onesti, in modo da contribuire al bene comune. La libertà di parola è uno strumento per contribuire a stabilire e ad assicurare la giustizia e la pace, correggendo squilibri di potere. Quindi, dobbiamo usarlo in modo responsabile. Nessuno può ignorare questa questione, anche se possiamo dissentire sulle risposte: in che misura stiamo servendo o danneggiando la giustizia e la pace per tutti attraverso quello che diciamo e pubblichiamo?
Il dibattito occidentale può sembrare troppo limitato. Spesso le persone che hanno più bisogno di libertà di espressione – i poveri, i diseredati, le donne, le minoranze – sono proprio coloro che hanno meno accesso ad essa e che soffrono di più quando tentano di esercitarla. Finora la libertà di espressione è applicata scarsamente o selettivamente in molti paesi, compresi quelli che hanno partecipato alla sfilata di Parigi la settimana scorsa. Storicamente, la libertà di stampa è stata di scarsa utilità per coloro che sono impoveriti, visto che essi non hanno controllo sulla stampa o sui mezzi di distribuzione. I diritti più rilevanti per i poveri sono stati quelli incentrati sulla libertà di parola e di assemblea, e anche di religione.
2. A volte usiamo la libertà di espressione come una licenza per il pregiudizio?
La satira può dire più di tante parole ordinarie su coloro che sono potenti. In tempi di dittatura, abbiamo visto come la satira (illegale in quei paesi) può essere un modo per dire la verità su coloro che detengono il potere. Ma anche dopo la tragedia di Parigi, che ha colpito sia una rivista satirica che la comunità ebraica, non è il caso di tralasciare una riflessione autocritica. I giornalisti e tutti gli altri, anche i politici, devono chiedersi se, auspicando più satira e critica, non possono attizzare fiamme di odio, xenofobia, o di pregiudizio etnico e religioso. Anche se ciò non è nelle loro intenzioni. Un altro esempio che vedo del perché la libertà di parola non debba essere affrontata come una semplice formalità è la pretesa di neutralità invocata dalle autorità giapponesi rispetto all’incitamento all’odio nei confronti dei coreani in Giappone. La linea che separa l’incitamento all’odio e la violenza è sottile, e ci sono esempi storici di come ciò possa facilmente trasformarsi in tragedia, come è stato per gli ebrei in Europa nel XX secolo, e lo è tuttora.
3. La religione deve essere al di sopra delle critiche?
Ammettiamolo: la religione ha fatto ed è parte del problema. A motivo della lunga e triste storia di tutte le religioni nel causare o almeno nell’essere usate per legittimare la violenza, anche oggi, la vita e le pratiche religiose non possono essere sottratte alla critica e alla satira.
Tuttavia, a che cosa serve offendere milioni di musulmani, per esempio, con caricature di Maometto? Non è controproducente rispetto al più ampio obiettivo della satira e della critica?
Come si può costruire fiducia reciproca tra i concittadini di una società multireligiosa offendendo i valori più profondi dei musulmani? In che modo ciò può servire l’obiettivo di favorire una cultura internazionale che dia spazio alla libertà di parola?
Oggi, i diritti delle comunità religiose e degli individui sono sotto forte pressione in molti paesi, e restrizioni e sanzioni crescono in modo drastico. La gente ha bisogno del diritto di criticare certi governi, senza paura di rappresaglie. Un’ulteriore polarizzazione tra culture e religioni non aiuta ad affrontare queste sfide. Ma forse è proprio quello che i terroristi vogliono che accada. La libertà di criticare è peraltro importante anche per le chiese e altri soggetti, in quanto consente di esprimersi contro coloro che abusano del potere per instaurare l’ingiustizia, la violenza, la repressione e la tirannia. È nostro dovere esprimerci apertamente per coloro che sono critici, particolarmente per coloro che non possono farlo da se stessi e hanno bisogno del sostegno di una voce comune.
4. Perché immaginiamo che Dio abbia bisogno di protezione?
Le leggi non possono proteggere Dio, che non può essere ferito dai nostri simili. Ma esse dovrebbero proteggere gli esseri umani i nostri diritti, la nostra dignità, le condizioni per la nostra vita comune. Le leggi anti-blasfemia in Pakistan, che il CEC ha condannato a varie riprese, creano un’atmosfera avvelenata e possono essere usate come pretesto per la persecuzione di minoranze cristiane, così come di musulmani.
La lezione importante che ho imparato lavorando a livello interreligioso durante la crisi delle vignette satiriche del 2005-2006 in Norvegia è che dobbiamo essere uniti nella protezione del diritto alla libertà di parola, ma abbiamo anche bisogno di essere molto fermi nella nostra condanna della violenza. Questo per il bene di tutte le parti. Ma dobbiamo anche sforzarci di creare una cultura della comunicazione in cui l’uno riconosca la dignità dell’altro, delle sue convinzioni e tradizioni.
5. Stiamo dimenticando il contesto più ampio?
Parigi non è l’unico scenario di brutale terrore e di uccisione di civili innocenti. Boko Haram ha ucciso probabilmente duemila persone la scorsa settimana in Nigeria. Quante persone sono state uccise da azioni terroristiche e azioni militari dello stato siriano, e in Siria e Iraq dal cosiddetto Isis, non solo ora ma nel corso degli ultimi tre anni? Il contesto più ampio del terrorismo è l’ingiustizia e il disprezzo.
In questo contesto generale dobbiamo considerare come le persone di tutte le religioni presenti in Iraq e Siria stiano soffrendo degli effetti negativi a lungo termine sia di interventi militari internazionali che dalla mancanza di volontà dei grandi attori, dentro e fuori la regione, di riunirsi per definire le soluzioni politiche necessarie. Questi e altri confitti irrisolti danno spazio a intolleranza estrema e al terrorismo.
Se vogliamo costruire una società internazionale di giustizia e di pace, ovviamente dobbiamo agire contro coloro che vogliono minare questi sforzi dividendoci per mezzo del terrore e della violenza. Ma dobbiamo anche contribuire in modo positivo ai processi di giustizia e di pace. Uno degli elementi chiave è la creazione di una cultura della comunicazione reciprocamente responsabile, in libertà e con rispetto e dignità.
di Olav Fykse Tveit, segretario generale del Consiglio ecumenico delle chiese (CEC)